http://www.nazioneindiana.com/2009/07/23/dei-baroni-non-si-sa-niente/
Volevo far conoscere le riflessioni di questa signora, Gilda Policastro, che commenta il libro 'I Baroni' di Nicola Gardini.
Mi sembrano parole fumose e altisonanti usate per nascondere e giustificare un imbroglio frequentissimo nelle istituzioni accademiche italiane.
Sotto il suo commento riporto le mie riflessioni.
di Gilda Policastro
Se il valore del libro di Nicola Gardini si dovesse misurare soltanto in relazione al tema annunciato dal titolo, I Baroni (Feltrinelli, 2009) e dallo strillo di copertina (“come e perché sono fuggito dall’università italiana”), il j’accuse lanciato dalla prospettiva dell’exul immeritus (Gardini è ora docente di Letteratura italiana e comparata a Oxford) e la comedía ivi inscenata, con i nomi tutti falsi di persone tutte vere, sentirebbero più del livore personale, e di una vendetta servita a freddo e senza pericolo, che della lucida analisi di un problema scottante. Del resto, il male dell’università è forse da individuarsi meglio in un cursus intollerabilmente lungo e privo di un approdo sicuro che nella corruzione dei singoli protagonisti.
Da questo punto di vista, concentrando invece l’attenzione sulle vicende personali e i macchiettistici individui che se ne rendono via via comprimari, dal problema strutturale si svierebbe verso quello contingente, non senza una patente contraddizione di fondo: se quell’ambito lavorativo si mostra così impresentabile, perché volerne far parte a tutti i costi, come parrebbe del Gardini agens?
Ma, per fortuna, così non è. I baroni non parla solo dell’università italiana come sistema incancrenito di rapporti di potere, di scambi di favori, di connivenze di tipo più o meno mafioso (così, almeno, ce la racconta il Gardini auctor, che, si badi, perlomeno nelle ultime pagine del libro non nega le proprie responsabilità, integrando opportunamente il j’accuse col mea culpa).
La chiave del libro è, invece, il passaggio in cui l’auctor-agens si definisce «ambizioso ma non competitivo», e l’ottica entro cui se ne può valutare retrospettivamente la tesi si fa perciò più interessante nel particolare e più persuasiva sul piano gnoseologico: lo scontro tra il reale e l’ideale, tra la pretesa diciamola romantica, idealista (o infantile) di trovare inverate le proprie aspettative “poetiche” (di bellezza, resistenza al tempo, armonia coi propri simili) in un mondo che si racconta più fedelmente con una prosa sconcia e volgare, le strategie perenni, i sotterfugi, le menzogne, non ultima l’inflessione intrinsecamente meridionale dei Baroni. Tra le pagine migliori, vi è infatti quella in cui Gardini contrappone al Barone per l’appunto il Poeta: questi, escluso dall’ingranaggio sociale perché incapace, avrebbe detto Pirandello, di “comunque vivere”; l’altro, pienamente integrato in un sistema in cui non contano le persone, ma le funzioni.
Il pungolo ai sognatori pare allora l’obiettivo primario del discorso, perché il loro più autentico sentire non soccomba fatalmente alle imposizioni autoritarie e brutali, e possa invece manifestarsi libero e appassionato. Gardini, cioè, voleva un posto nell’università italiana come l’amante attende corrispondenza dall’amato: l’intensità e la purezza del sentimento creano di per loro delle aspettative, anche quando l’amato si mostri alla prova del vero corrotto e meschino, e la reciprocità e irrecusabilità d’amore (per dirla alla Contini) non meno improbabili dell’agognata corrispondenza tra lo studioso (o il Poeta) e il Barone. Sempre che queste due figure non riguardino, dunque, solo l’università, ma la vita di ciascuno, entro un destino comune che, come emerge con crudezza dal resoconto, quasi impietoso, della malattia del padre, ci riduce inevitabilmente, prima o dopo, a cose inermi: e la nudità «dalla cintola in giù» del «demente», rovesciando vettorialmente la citazione del fierissimo Farinata dantesco, rende nel libro forse meglio dei troppi rimandi esibiti la verità della letteratura che sostiene la vita, che la accompagna, che ne medica i mali.
Conseguentemente, il racconto della morte, rimosso sociale più forte della nostra epoca, vale a recuperare a posteriori un senso per l’esperienza anche più tragica («per me la felicità ha a che fare con il passato», leopardianamente).
L’ «ambizione» di Gardini pare consistere, in definitiva, in un confronto coi simili, dove ve ne siano, meno segnato dall’aridità del contingente: al di là dei sassolini di cui pure la scarpa palesemente era ingombra.
[Questa nota è uscita sul quotidiano Liberazione]
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Mi permetto di suggerire una risposta alla domanda di Gilda Policastro, che riporto:
“Detto diversamente: se l’introduzione di criteri oggettivi per la valutazione dei titoli (sia pur con tutti i limiti che l’attribuzione di un punteggio, per dire del più importante, a una pubblicazione in base alla sua sede) si deve (sic!) alla riforma Gelmini (peraltro non ancora in atto), e per decenni il criterio selettivo sono state invece prevalentemente le prove scritte di concorso, tu al posto di un docente che avesse i titoli e le competenze per giudicare un candidato (dunque nella migliore delle ipotesi, cioè al posto di un docente preparato e onesto), come ti saresti regolato di fronte alle prove pressoché equivalenti di un candidato interno e uno esterno, il primo dei quali avesse speso anni della sua formazione accanto a te e sotto il tuo magistero, magari collaborando, come da prassi, alla didattica, agli esami e tutto il resto: a parità di merito, ripeto, non avresti favorito il candidato interno?
La risposta, piuttosto ovvia è che nelle università - aimé soprattutto straniere - più intelligenti non fanno concorsi truffa come in Italia e, per rispondere più precisamente, se, come in Italia, organizzo un concorso truffa e poi devo scegliere tra un candidato interno e altri - a parità di punteggio per il tema del concorso, nelle università più decenti si sceglie quello che ha il CV PIU’ BRILLANTE. Anzi all’estero non si fanno per niente i concorsi disonesti che ci sono in Italia ma semplicemente si manda il proprio cv e se le proprie credenziali sono brillanti si è scelti per queste. In Italia i concorsi delle università sono perlopiù una presa in giro che costa molti soldi ai contribuenti, sono pilotati, anzi il vincitore è già stato scelto, il tema spesso suggerito, il concorso spesso costuito ad hoc sul cv della persona che ha già vinto prima di farlo e, last but first, non conta se uno ha un cv brillante. Se uno ha passato magari 10 anni in un brillante centro di ricerca negli USA, spesso viene superato da chi ha a malapena qualche modesta pubblicazione in riviste solo del proprio istituto. La Sig.ra Policastro lamenta che è difficile determinare criteri oggettivi per valutare quale siano le esperienze accademiche più brillanti? Poverina, davvero lacerante.
Un criterio di scelta è, ad es, le pubblicazioni a livello internazionale, che di solito valgono di più delle pubblicazioni che girano solo nel proprio istituto e che spesso sono fatte solo per avere una pubblicazione e che non valgono molto.
Che cosa farei se il candidato interno e quello esterno hanno passato con voti uguali? Sceglierei non il candidato interno, ma quello che ha il miglior cv, quello che fatto brillanti esperienza anche internazionali. Elementary, Watson!
Ho apprezzato moltissimo il libro di Gardini.
Roberta Barazza
Sopra il commento da me pubblicato su www.nazioneindiana.com . Aggiungo che se quei signori continuano a scegliere i loro protetti anzichè persone con cv brillante e competitivo, l'università italiana sarà sempre più provinciale, chiusa, in stile 'familismo amorale'.