Ho letto il libro 'Il Terzo Giappone' di Virgilio Lilli, ed. Reporter, Roma, 1968.
Naturalmente parla del Giappone, ma è sorprendente quanto quello che scrive faccia pensare alla Cina di oggi, allo sviluppo del capitalismo cinese e all'importanza delle Olimpiadi del 2008. Si noti che il libro esce nel 1968.
Riporto ora l'inizio dei primi due capitoli.
Cap. 1. I Tre Giapponi
Conosco il Giappone. Conosco il Giappone da oltre trent'anni. La prima volta che ci venni avevo quasi trent'anni di meno, ero un ragazzo. La guerra mondiale numero uno era finita da poco più di dieci anni, la numero due doveva aspettarne meno di dieci per cominciare. Il mondo era molto diverso da quello d'oggi, dovunque, anche in Giappone. Il Giappone era allora una grande potenza, l'unica grande potenza asiatica, la Germania dell'Estremo Oriente. A quell'epoca la Cina era un'enorme palla di fango che il Giappone modellava a suo piacimento. La Russia non s'era ancora psicologicamente ripresa dalla grande umiliazione inflittale dalle armate e dalla flotta del Mikado. Il Giappone appariva agli occhi degli occidentali come un nano dotato d'una forza terribile, al quale non si potevano opporre che due giganti, l'impero inglese e gli Stati Uniti d'America. Comunque governi e popoli preferivano non stuzzicarlo, cercavano di non disturbarlo nella sua inesorabile crescita politica e commerciale.
In quegli anni - e fino agli inizi della seconda guerra mondiale - il Giappone faceva il 'dumping'. I prodotti giapponesi inondavano l'Asia, il Medio Oriente, l'Africa, costavano cifre dell'ordine di soldi più che di lire. Le sveglie giapponesi si vendevano a sacchi, come patate. Con trenta franchi francesi nel 1936, ricordo che a Gibuti comprai una volta quattro camicie di seta, un paio di pantaloncini corti cachi, una lampada elettrica gigante a mano con dieci accumulatori di ricambio, un casco coloniale e un paio di sandali: tutto giapponese. Mi rivestii da capo a piedi e mi rifornii di luce elettrica per un mese con pochi soldi spicci. In Europa si parlava della minaccia delle biciclette giapponesi come se le biciclette fossero un esercito che stesse per sbarcare sulle nostre coste, ogni bicicletta un marziano.
Per l'aggressione all'industria occidentale sulla base del prezzo il Giappone si serviva di un mezzo fondamentale: la mano d'opera giapponese che costava un decimo (o qualcosa del genere) di quella occidentale. Un operaio giapponese mangiava una tazza di riso a pranzo e una a cena per sei giorni la settimana, il settimo mangiava, in più, un pesce crudo. Quanto al vestire, una tunica e un paio di mutande di cotone gli duravano un anno. Ai piedi, quando non andava scalzo, portava zoccoli. Era silenzioso, quieto, disciplinato, continuativo nel lavoro, automatico, capace di imparare a 'copiare' alla perfezione un mestiere nel giro di una settimana. Dalle sue mani piccole e abili uscivano corazzate, aeroplani, ponti d'acciaio, locomotive, macchine utensili, palazzi di cemento e di ferro: copiati.
In poco meno di cent'anni i samurai, con gli spilloni nei capelli, le due spade alla cintura, la veste da camera e il volto coperto di cipria bianca, come li immaginavamo noi, erano diventati gli zaibatsu, i più formidabili capitani d'industria della terra. I giapponesi avevano copiato perfettamente i Krupp, gli Stumm, i Rotschild, i Ford, i Rockefeller. Le banche giapponesi erano dei buildings foderati di marmo di Carrara, con inferriate di bronzo e d'oro da templi gentilizi, come le banche di Wall Street e della City londinese. Tokjo era una città di sette-otto milioni d'abitanti, con ferrovie sopraelevate, tram, autobus, metropolitane, ascensori e la più alta percentuale di semafori stradali del mondo, simili a quelli ferroviari, con le tre luci orizzontali inserite in una lastra di ferro a strisce bianche e nere.
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Cap. 2. Il collaudo delle Olimpiadi
E' possibile che un grande Paese rinasca da un incontro di scherma? O da una partita di calcio? O da una corsa di cento metri? O da un match di boxe e simili? E' possibile che una grande nazione inizi un suo nuovo cammino da uno stadio, da una piscina, da un velodromo, da un campo ostacoli? E' possibile che il fischietto dell'arbitro divenga per un popolo una specie di marcia trionfale? E la bandierina dello starter uno stendardo della gloria nazionale? E' possibile. Ce ne dà la conferma il Giappone. Esiste una data, nella storia recente del popolo giapponese e del Giappone, che ha un valore storico in senso determinante come lo avrebbe una battaglia, un trattato di pace, una rivoluzione, un congresso internazionale: da quella data il Giappone entra in una ennesima fase della sua vita già millenaria. Da quella data prende l'avvio in modo definitivo il ciclo di un suo rinascimento o risorgimento che sia. E' la data delle Olimpiadi 1964. Le Olimpiadi 1964, per tutti i paesi che vi hanno preso parte - da quelli che vi conseguirono il primato dei successi come gli Stati Uniti a quelli che vi trovarono la conferma alla loro attuale inabilità fisica come la Francia - furono qualcosa come una domenica sportiva sia pure d'ordine mondiale, un colossale week-end della salute internazionale, un festival da palestra sia pure in dimensioni monumentali. In ogni caso un avvenimeto laterale e specialistico della loro vita nazionale. Non così per il Giappone. Per il Giappone le Olimpiadi 1964 assunsero il valore di una pietra miliare di ordine storico, qualcosa come una battaglia d'Isso, o una incoronazione di Carlomagno. o un congresso di Vienna. Guardando alle Olimapiadi 1964, un giapponese potrebbe dire quello che disse Goethe nei confronti della rivoluzione francese: "Qui, da questo momento, comincia la nuova storia".
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