Monday, April 21, 2008

"Puerto Escondido" di Gabriele Salvatores

"Puerto Escondido" è un film del 1992. E' la storia di un vice-direttore di una banca di Milano (Abatantuono) che subisce un tentato omicidio e poi assiste ad un altro omicidio ad opera dello stesso assassino, che è il commissario di polizia incaricato del suo stesso caso.
Figura enigmatica, il commissario, che compare nelle varie scene all'improvviso, come l'ombra inquietante dello stesso protagonista.
Il tema del doppio è sicuramente importante in questo film. Abatantuono è un piccolo borghese tranquillo e ligio al dovere che all'improvviso si trova, suo malgrado, in un caso che sconvolge la sua vita ordinata, e la porta ad una svolta radicale. Per sfuggire al suo assassino e all'assassino dell'altro uomo, scappa a Puerto Escondido, in Messico. Il nome è tutto un programma, e anzi Mario (Abatantuono) sceglie questa località proprio per il suo nome: un porto nascosto dove, forse, può celare un evento da cui fugge.
E qui comincia l'avventura di questo italiano che perde prima i soldi, poi la carta di credito, poi subisce un furto ... insomma, una bella differenza dalla vita ordinata e prevedibile finora condotta. In Messico incontra due altri italiani ormai avvezzi a questa vita meno integrata e meno occidentale: vivono di espedienti, non esitano a spacciare, derubare, consumare allucinogeni, sfuggire alla giustizia, ma con la leggerezza di chi crede che in fondo la vita sia un'avventura stile 'il gatto e la volpe', un po' insicura ma non seria o tragica.
Fanno cose anche molto gravi, ma come se non lo fossero. E' vero che in Sudamerica chi ha conti con la giustizia a volte trova, o trovava?, facile rifugio. Si ha l'impressione che lì non occorra molto per vivere, specie se non si è troppo esigenti con la propria coscienza.
In fondo non uccidono o non danneggiano troppo gravemente nessuno, e anzi Anita (Valeria Golino) ricorre pure alle scuse di un improbabile esproprio anticapitalistico per giustificare, invece, un furto di puro comodo. E il buon Mario sembra, in fondo, buono davvero: a chi gli procura la droga da smerciare, dà persino la mancia, commosso dalle loro misere condizioni di vita.
Quando Mario arriva in Messico, si assiste ad una piacevole trasformazione della sua vita, che passa dalle ombre inquietanti di una Milano oscurata dal crimine, alle luminose spiagge messicane e ai colori sgargianti dei vestiti dei campesinos. Vien da pensare: basta cambiare un luogo di vita perchè cambi davvero tutto, perchè le paure possano rasserenarsi e svaniscano i brutti ricordi.
Ma non è così. I guai in cui si mette quest'allegra brigata di italiani sono sempre più intricati, e alla fine si arriva alla resa dei conti di nuovo: dopo una rapina, vengono arrestati e sembra proprio che questa volta debbano pagare un qualche conto con la giustizia. Guarda caso Mario finisce come era cominciato il film: impallinato da proiettili sparati dal commissario di Milano prima, e dai poliziotti messicani poi, che lo fanno finire su un letto di ospedale, ma si riprende in fretta tutte e due le volte. La seconda volta però dovrà anche pagare con la prigione, insieme ai suoi allegri compari.
Il film è pieno di belle immagini, e la colonna sonora finale è accompagnata da una galleria di ritratti di campesinos che sono da soli un piccolo capolavoro.
Ma resta l'impressione di una confusione, di una mancanza di senso nella storia, che inquieta e che lascia in sospeso, come se tutta la storia fosse un trionfo del non senso. Un senso c'è, forse, ed è che alla fine in qualche modo si pagano le proprie responsabilità, ma per tutto il film è un succedersi di cose che accadono per caso, almeno sembra, e che portano a gravi situazioni ... sempre per caso. Lascia inquieto lo spettatore.
Interessante è il rapporto tra il commissario che fa scappare Mario da Milano, e Mario stesso.
Come dicevo, sembra una delle tante storie del doppio, il Doppelgaenger, che partendo dalla letteratura romantica, da E.T.A. Hoffmann in poi, passando per Dostoijevski, Hesse, Conrad, arriva fino ai nostri giorni.
Anche nella costruzione delle immagini, il commissario è una figura inquietante che compare all'improvviso accanto a Mario, e sembra proprio il doppio di Mario.
In che senso? Nel senso che spinge Mario, ordinato e integrato piccolo borghese occidentale, a uscire dai binari delle regole sociali. All'inizio Mario sembra una vittima di questa situazione, ma poi, con il proseguio della storia, si ha l'impressione che quel commissario sia una parte della personalità di Mario stesso, che Mario non rifiuta e che pian piano emerge, accettata, portandolo a delle scelte diametralmente opposte alla sua vita di impiegato di banca. Perchè Mario non denuncia il commissario, ben sapendo che lui gli ha sparato e che lui ha ucciso il collega? Lo potrebbe fare. Ma non lo fa. E preferisce uscire dalla pista rassicurante e chiara della sua vita precedente, per seguire quella della vita un po' casuale, avventurosa, insicura ma in fondo un po' 'spensierata', che poi sceglie lui stesso di fare in Messico.
Alcune frasi nel film dicono di questa filosofia di vita che piaceva tanto dal '68 in poi: la vita è come un ponte; passalo, ma non costruirci sopra niente di pesante. Alcuni personaggi nel film dicono: non siamo noi che scegliamo gli eventi, sono gli eventi che ci scelgono; non possiamo decidere niente: è il caso che decide per noi. Insomma quelle filosofie da pensiero debole che tanto piacevano qualche anno fa.
Secondo me questo modo di ragionare è passato ormai di moda. Tira un'aria diversa negli ultimi tempi. Ma fino a pochi anni fa, secondo me, ancora si ragionava in questi termini. Quando ero all'università (mi sono laureata nel 1995) questi discorsi erano frequenti. Il film è stato fatto nel 1992 e aveva avuto molto successo, ma ho l'impressione che la recezione adesso sarebbe molto diversa. Personalmente, quasi quasi, preferisco le storie a lieto fine americane. Questa di 'Puerto Escondido' è una storia 'debole', nel senso che non sembra importante che tutto abbia un significato, non ha importanza che alla fine ci sia qualcosa di giusto. E naturalmente fino a pochi anni fa, che una storia fosse in qualche modo teleologica sembrava una caratteristica naif o una cosa d'altri tempi. A me non spiace, invece, che tutto abbia senso e un fine positivo.
Insomma, il film ha delle immagini molto belle, delle scene etniche suggestive e pseudo-impegnate, ma forse ormai siamo in un periodo in cui si chiede anche che tutto sia di nuovo più razionale, più sensato, più giusto. O, almeno, questa è la mia reazione.