Friday, May 23, 2008

Balcani

Questo mio post del 16 febbraio sul Kosovo è stato commentato da Martin. Pubblico volentieri lo scambio che ne è seguito:



Tutti col fiato sospeso per quel che succederà domani nei Balcani: la proclamazione unilaterale d' indipendenza del Kosovo.

Dopo le guerre nei Balcani degli anni '90, si diceva spesso che appartenere ad un'Europa unita avrebbe scongiurato altri simili disastri. Anche per questo c'è da augurarsi che tutti i paesi balcanici entrino presto nella Comunità Europa.

Domani si guarderà col fiato sospeso a ciò che sta succedendo nei Balcani, ma io penso che, proprio per il ruolo cresciuto dell'Europa in questi anni, non si arriverà ai disastri degli anni '90.
Improbabile che Belgrado da sola (anche se appoggiata dalla Russia, aimè) pensi di affrontare con le armi una decisione che trova concordi il Kosovo, quasi tutti i paesi europei, e gli USA.
Se si arriva ad una definizione pacifica di questo nuovo assetto geografico, vuol anche dire che l'Europa è diventata più unita e più forte. Staremo a vedere ...

Sono stata nei Balcani per molti mesi nel 2005 e 2006. Ero lì anche quando Rugova è morto, dopo molti anni di malattia. Ero lì anche quando il Montenegro ha proclamato l'indipendenza.
Ciò che mi ha sorpreso è che di una possibile indipendenza del Montenegro non si era quasi mai parlato. Da un giorno all'altro ci si accorge che i montenegrini preferiscono l'indipendenza (e una maggiore vicinanza all'Europa) alla compagnia dei loro cugini serbi.
Da un giorno all'altro. E l'hanno ottenuta subito.

Invece dell'indipendenza del Kosovo si parla da molto. Ma i kosovari non sono ancora riusciti a creare uno stato indipendente.
Ho sempre pensato che se c'è un popolo nei Balcani che merita l'indipendenza, quello è proprio il popolo kosovaro. Per vari motivi: perchè quasi tutto il Kosovo è popolato da albanesi che con i serbi hanno poco in comune, per motivi culturali (lingua, etnia, religione) e per motivi storici (li hanno divisi guerre sanguinose e gli scontri etnici degli anni '90).
Nella guerra balcanica degli anni '90 gli albanesi del Kosovo hanno pagato un prezzo enorme, forse il prezzo più alto; e solo questo dovrebbe, secondo me, impedire che la Serbia possa esprimersi troppo. I serbi hanno danneggiato gli albanesi del Kosovo in maniera gravissima e per questo, credo, non hanno diritto di pretendere altro da una regione che, anche per quel che ha subito, ha il diritto all'autodeterminazione.

I miei amici albanesi di Tetovo mi hanno detto che non è vero che il Kosovo è così povero. Lo è, ma anche perchè la parte più ricca di esso (il nord, nella zona della città di Mitrovica, a maggioranza serba) ha delle grandi ricchezze (anche metalli preziosi, tra cui l'oro) il cui controllo è in mano serba.
Mi hanno detto anche che è ingenuo pensare che una ragione importante da parte dei serbi per impedire l'indipendenza del Kosovo sia quella di proteggere i monasteri cristiano-ortodossi dagli albanesi kosovari che sono musulmani e che distruggerebbero quel patrimonio culturale.
E infatti sembra che i monasteri ortodossi servano, oltre che per pregare e proteggere opere d'arte religiose, anche per nascondere criminali di guerra. Sembra infatti che addirittura Mladic sia un finto frate, nascosto in qualche convento, e protetto dai diritti riservati ai luoghi di culto.

Quando da Banja Luka ho preso il treno per Sarajevo, una ragazza seduta vicino a me mi ha aiutato a leggere il quotidiano che avevo comprato a Banja Luka: un articolo con foto diceva che Mladic, il criminale di guerra più ricercato nei Balcani, era stato visto al ristorante con sua moglie, nei pressi di Banja Luka. Come a dire: i serbi non sembrano troppo intenzionati a pagare tutti i loro crimini di guerra e a consegnare i criminali di guerra, come ben sa l'ex Procuratrice del Tribunale dell'Aja, la italo-svizzera Dal Ponte, che per anni ha tentato di costringere i serbi a consegnre Mladic e Karazdic, e che ora c'ha rinunciato, trasferendosi a dirigere l'ambasciata svizzera a Buenos Aires.

Poi c'è la questione della Grande Albania, che faceva sorridere i miei amici albanesi. Questo spauracchio della Grande Albania, cioè una presunta intenzione da parte degli albanesi di formare un grande territorio che potrebbe destabilizzare i Balcani, sembra più un strumentalizzazione politica per negare l'indipendenza ad uno stato che è sempre stato un po' la Cenerentola dei Balcani, anche sotto Tito. E, infatti, come si può pensare che due stati economicamente deboli come il Kosovo e l'Albania possano mettere a rischio la sicurezza politica, culturale e economica di un' Europa Unita? Questa idea della Grande Albania veniva strumentalmente accostata al tema del terrorismo internazionale: si voleva far pensare ad una sorta di 'invasione', anche culturale, di musulmani nell'Europa cristiana.

Credo che quello che vogliono gli albanesi sia l'indipendenza, un miglioramento delle condizioni di vita e un ruolo più rispettato in un contesto che li ha schiacciati, specie nella storia più recente: il Kosovo, per i soprusi nell'area balcanica, e l'Albania stessa, per l'incubo di anni di storia (dal dopoguerra agli anni '90) tra i più oscuri e drammatici di tutta l'Europa.

Roberta Barazza


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Salve Roberta,

mi presento, sono Martin -- , un urbanista di Milano.

Capitato per caso sul suo blog, ho avuto modo di notare un'osservazione circa la questione dell'extraterritorialità dei monasteri serbo-ortodossi del Kosovo. Mi è dispiaciuto leggere come lei, come argomento critico a riguardo, abbia fatto riferimento al fatto che il criminale di guerra Karadzic sia (o sia stato) latitante presso un monastero al confine tra Serbia e Montenegro. Fermo restando che non esistano prove di ciò (e preso atto di come alcuni religiosi della Chiesa ortodossa serba abbiano, è vero, in vario modo dato un cattivo esempio durante i conflitti balcanici), mi preme ricordarle come esistano anche delle cose positive da raccontare. Ad esempio il fatto che, durante la guerra del Kosovo, i monaci del monastero di Visoki Decani abbiano dato rifugio ad alcune famiglie albanesi del vicino villaggio. Forse, come promemoria, il riferimento aneddotico sarebbe risultato più pertinente. Anche alla luce del fatto che a vedere nell'extraterritorialità dei monasteri una minaccia, siano più che altro alcuni personaggi poco raccomandabili (Albin Kurti in primis), fautori di uno sciovinismo esasperato, e disposti ad aggrapparsi a qualsiasi argomento.

Credo che se lei, invece che a Tetovo tra gli albanesi, insegnasse in un posto qualunque in Serbia, esisterebbe qualche probabilità che spendesse delle parole meno dure nei confronti dei serbi (ad esempio riconoscendo il fatto che anche loro, nonostante si trovino dalla parte degli sconfitti, abbiano tutta la legittimità di "esprimersi", anche "troppo", per usare le sue parole, sulla questione del Kosovo). E che lei si ricredesse sul fatto che gli albanesi, tra tutti, siano quelli ad aver pagato di più (ad esempio guadagnandoci una seconda patria indipendente...ma non voglio entrare in polemica). (Del resto, chi cerca ancora un qualche odore di ciò che fu la jugoslavia, a qualche possibilità di ritrovarlo in Vojvodina, a Fiume, o da qualche parte in Montenegro. Non certo a Pristina).

Forse, ad averci rimesso, sono state semplicemente le persone che erano in buona fede, dalla Croazia alla Serbia, dal Kosovo alla Bosnia. Del resto, la stessa esperienza balcanica insegna come, visitando quei paesi, ci si debba ricordare di come tutto sia relativo, e di come girato ogni angolo, si abbia modo di farsi raccontare mille bugie come mille verità.

Le scrive una persona che, suo malgrado, la crisi jugoslava l'ha vissuta quasi in prima persona, e che ha capito come la salvezza dei balcani vada cercata fuori da ogni semplificazione, ogni spassionato romanticismo, ogni esaltazione nazionale (compresa quella albanese), ogni isteria, ogni facile giustizialismo, ogni manicheismo, ogni revanchismo, ogni apparente certezza.

Cordiali saluti

Martin



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Buon giorno.

Proprio perchè sono d'accordo con la sua conclusione, dove dice che bisogna cercare di capire aldilà di ogni semplificazione e di ogni apparente certezza, la ringrazio del suo commento.

Sicuramente: se io avessi insegnato per un anno anche in Serbia, come mi è capitato a Tetovo in Macedonia, capirei di più i Serbi; anzi è proprio per questo che mi piace viaggiare e insegnare in molti paesi. E insegnerei volentieri per qualche mese anche in Serbia. Anzi io non ho per niente antipatia per i Serbi. Ho avversione per quei politici che hanno causato morte e violenza in Jugoslavia.

Tra i miei alunni alla www.seeu.edu.mk avevo soprattutto albanesi ed è probabile che capisca di più il loro punto di vista. Tuttavia poi si cerca di informarsi e di conoscere le cose anche in modo meno intuitivo e immediato.
E per questo, in base alle informazioni che ho, ribadirei in sostanza le mio opinioni.

Il riferimento ai monasteri ortodossi, se rilegge il mio post, era quasi una battuta. So che non è certo, ma si ipotizza, che addirittura Mladic e Karazdic siano protetti nei monasteri.
Il centro del mio discorso comunque è che, secondo me, leggendo la storia più recente ma anche il periodo di Tito, gli albanesi restano la parte più debole e schiacciata dell'ex-jugoslavia. E io credo che loro siano tra quelli che più sono stati schiacciati in quest'area. E' quasi un luogo comune che i serbi si siano imposti nella ex-yusoslavia più di altre nazionalità.

Secondo punto: secondo me un territorio è innanzitutto la sua popolazione; il kosovo è a maggioranza albanese e questo solo dice, secondo me,c he ha il diritto di chiamarsi Kosovo albanese.
Qui ovviamente ognuno ha la sua opinione: a me la Spagna è molto simpatica, specie di recente, e la politica di Zapatero mi sembra buona; non per questo concordo con quello che dice sul kosovo, visto che non ne accetta l'autonomia.

Poi lei dice che c'è stato solo l'eccidio di Srebrenica. A me risulta che milosevi sia stato incriminato all' Aja per il conflitto in croazia del 1991-2, per il genocidio nella guerra in bosnia nel1992-95, per crimini contro l'umanità in kosovo nel 1999. in kososo la sua violenza repressiva ha portato allo sfollamento di più di un milione di kosovari e alla pulizia etnica. inoltre sono soprattutto milosevi e colleghi i responsabili dell'esasperazione del nazionalismo serbo che voleva imporsi e che invece ha ottenuto l'effetto contrario, la dissoluzione della jugoslavia.

io non ho affatto antipatia per i serbi, ma ritengo che ciò che milosevic e il suo apparato politico ha fatto sia di tale gravità da avvalorare il sostegno alla autonomia del kosovo. inoltre la serbia non ha ancora consegnato motli suoi criminali di guerra.
per questo propendo decisamente per il kosovo.

certo, se vivessi nei dintorni per un altro anno, conoscerei meglio la situazione e capirei forse di più la ragione di altri, ma per ora ribadisco queste opinioni. mi rallegro che un europeista, anzichè un nazionalista, abbia vinto le ultime elezioni politiche in serbia.

insomma, lei ha ragione a dire che la realtà è molto complessa e articolata. ed è difficile che uno sia consapevole di tutti i suoi risvolti. ma ognuno non può non prendere posizione. e se persone come lei poi criticano o propongono altre opinioni, tanto meglio: si conosceranno così più aspetti e l'opinione si arricchisce di altri punti di vista.

Cordiali saluti,
Roberta Barazza



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Gentile Roberta,

innanzitutto la ringrazio di avermi risposto e mi fa piacere che abbia accolto costruttivamente le mie osservazioni. Sono anche lieto di scoprirmi d’accordo con più di uno dei suoi argomenti e opinioni.

Ad esempio, sono d’accordo sul fatto che l’odiosa leadership criminale serba degli anni Novanta (che lei, giustamente, distingue dalla collettività serba) vada ritenuta responsabile di molti dei disastri che hanno dilaniato la Jugoslavia. Milosevic in primis.
Ma non solo il nazionalismo serbo ha ucciso la Jugoslavia; insieme ad esso, quello croato, quello sloveno, e tutti gli altri. Il croato Tudjman, le ricordo, in nulla era meglio del suo omologo serbo. Eppure è morto nel suo letto, e ad egli sono intitolate strade e piazze in quasi tutti i villaggi e le città croate. Il suo più grande crimine, la famigerata “operazione Tempesta” del 1995 (ovvero la cancellazione forzata, nel giro di una settimana, della secolare minoranza serba in Croazia, e l’uccisione di chiunque non prese la via della fuga), è rimasto e rimarrà sempre impunito. Anzi celebrato regolarmente, con feste, riti, monumenti. I serbi che tornano in Croazia devono, e dovranno in futuro, sopportare anche questo. (tra l’altro, all’Operazione Tempesta partecipò, lo sappiamo, lo stesso Agim Ceku, che croato non era, bensì kosovaro; mi vengono dunque i brividi, a pensare a quali “nobili” ragioni avessero motivato la sua scelta, e ancor di più a pensare che il signor Ceku siede oggi comodo su una poltrona nel parlamento di Pristina).
Io le ho viste, le Krajne croate, prima e dopo la guerra. L’entroterra serbo di Zara era, in qualche modo, il volto arcadico della Croazia. Le ho riviste nel 1997, e mi si è svelato agli occhi un deserto fatto di strade sbarrate e villaggi fantasma. La croata Knin, che prima del 1991 era una città serba (proprio come Pristina una città albanese), non era più una città, bensì un “non-luogo”. L’orrore di quella stupida guerra, del suo tetro domani, io l’ho visto tutto lì. In quel caso, erano i serbi a vestire i panni delle vittime.
Molte altre volte, lo sappiamo, furono loro i carnefici. (io, nella mia prima lettera, non ho parlato di Srebrenica, però...temo di non aver capito quella parte della sua lettera. Ma si tratta di un dettaglio). Per questo “prendere posizione” è difficile; lo voglio fare, nel senso che ai colpevoli voglio dare un nome e un cognome, ma la mia presa di posizione non coincide con una partigianeria di stampo etnico, e non lo voglio assolutamente, per convintissima scelta.
Le assicuro, sono io il primo a ricordare, oltre a Srebrenica, anche Sarajevo, anche Vukovar, e tutte le nefandezze di Mladic, o di Arkan. Ma ricordo anche il massacro di Gospic, proprio all’inizio della guerra, nel 1991 (e lì, ad imbracciare i fucili, non erano i serbi).
E inoltre le dico: io ho un grande desiderio. Che un giorno, a Belgrado, vedremo una via o una piazza dedicata alle vittime di Srebrenica. E sa una cosa? Le assicuro che a Belgrado non sono in pochi a pensarla come me. Sarà forse solo un simbolo, ma quel giorno potremo finalmente dire che sono cambiate delle cose. Sono altrettanto convinto che la società serba debba immergersi (come una sua parte sta già facendo) in un processo di rilettura autocritica del proprio passato recente, delle proprie responsabilità, delle proprie colpe. Ma il punto è questo: non è semplicemente giusto che a doverlo fare siano solo loro.

La Serbia, dice lei, non ha ancora consegnato molti criminali di guerra. All’appello ne mancano diversi, è vero (molti, del resto, si nascondono chissà dove). Ma molti altri sì, li ha consegnati, compreso l’ex capo di stato (scusatemi se è poco). E senz’altro ne ha consegnati molti più di tutti gli altri. Se pensiamo che delle 100.000 vittime del conflitto bosniaco, 25.000 (un quarto) sono serbe (dati definitivi del centro di documentazione e ricerca di Sarajevo, i più attendibili in assoluto), non possiamo certo credere che i criminali di guerra vadano cercati da una parte sola. Eppure, il bosniaco Naser Oric è rimasto tra le sbarre quanto un ladro di banane. Il croato Gotovina è stato arrestato appena 3 anni fa alle canarie, e non certo grazie alla collaborazione del governo di Zagabria (dove tra l’altro siede tuttora impunito, sebbene già condannato, un altro brutto personaggio, Branimir Glavas). Per non parlare di quel pessimo spettacolo che è l’attuale leadership politica albanese in Kosovo (rispetto alla quale non è necessario nessun commento).
Di fronte a tutto ciò, non mi sorprende affatto il pensiero che al serbo medio girino le scatole, all’idea che debba essere solo il suo paese a collaborare. Mi pare, sinceramente, che continuare a chiedere collaborazione solo alla Serbia sia niente di meno che un accanimento, un’ossessione, fino ai limiti della paranoia. Controproducente, in più. Non è forse arrivato il momento che giungano dei segnali di maggiore collaborazione da parte degli altri? E che noi, in Occidente, li si debba pretendere, senza continuare con le nostre semplificazioni, che hanno attribuito ad alcuni popoli l’etichetta di “vittime”, ad altri quella di “colpevoli”? Quanto di peggio si potesse fare, io credo, se le intenzioni erano quelle di promuovere un vero processo di riconciliazione da un lato, e di intraprendere un percorso di indagine seria su cosa sia veramente successo, e come, perché, per colpa di chi. Perché le “vittime”, così legittimate, non si sogneranno nemmeno di riconoscere i delitti commessi in loro nome. E i “colpevoli”, frustrati, tarderanno ad uscire dalla trappola nazionalistica. Scrivere la storia troppo in fretta è un errore. Ed è il nostro stesso passato ad insegnarcelo.

Ma passiamo ad altro. Per quanto riguarda quella che era la posizione degli albanesi nella Jugoslavia di Tito, sono d’accordo solo in parte sul fatto che fossero la parte più debole (ancora di meno sul fatto che lo siano tutt’oggi; a mio modesto parere, anzi, negli ultimi 10 anni si è verificato un processo di empowerment molto marcato).
Senz’altro il processo di integrazione (anche sociale) di questi è stato difficoltoso (e in gran parte incompiuto), anche per colpa della storica rigidità e della pregiudiziale insofferenza da parte di un ampio settore della società serba. Un processo che in generale doveva essere gestito e accompagnato diversamente. In questo sono assolutamente d’accordo con lei.
Tuttavia, anche dalla parte opposta mancarono dei necessari segnali positivi rispetto alla volontà di una vera integrazione; la responsabilità di tale fallimento va quindi cercata anche da parte albanese. Non dimentichiamo che sin dal 1945 il Kosovo è stato una provincia ampiamente autonoma, culturalmente e politicamente. A partire dalla costituzione del 1974 (e fino alla folle politica di Milosevic), tale autonomia consistette addirittura in uno status di quasi-repubblica (con rappresentanti negli organi della federazione, in quota analoga a quella delle repubbliche, nella diplomazia all’estero e addirittura il potere di veto nei confronti della Serbia). Un elemento che costituì una grande occasione di emancipazione della provincia (così come della comunità albanese), occasione purtroppo perduta, anche per colpa di una leadeship locale miope, dissipatrice delle risorse economiche (che provenivano dalle tasse di tutta la Jugoslavia, dalla Slovenia alla Macedonia) che ogni anno confluivano verso quella che era la regione più povera del Paese. Una classe politica locale, inoltre, sempre pronta ad intavolare la “questione nazionale”, anche quando ce n’era meno bisogno.
Una rilettura distorta, in chiave vittimistica, di questo fallimento è purtroppo assai frequente, oggi, tra molti albanesi (non tutti, per fortuna, ma i più onesti tendono spesso ad essere “imbavagliati”), e credo che sia opportuno prenderne le distanze, da questa come dalle altre bugie che fanno di moda oggi nella ex-Jugoslavia (bugie serbe, croate, slovene e tutte le altre).

Lei poi mi dice che il Kosovo ha diritto di chiamarsi “Kosovo albanese”. Io sono d’accordo sul seguente aspetto: alla luce di quanto è successo con Milosevic, dei terribili anni ’90 che i kosovari hanno dovuto patire, la re-integrazione della provincia in seno alla Serbia era senz’altro improponibile, e il graduale processo di indipendenza (nominale o “de facto”) certamente inevitabile. Per il bene di tutti, anche della Serbia (io credo). Fermo restando che la Spagna credo abbia i suoi buoni motivi per non accogliere frettolosamente il Kosovo indipendente (lei dice “autonomo”, che è diverso, presumo un lapsus; l’ipotesi della massima autonomia è stata scelta come prerogativa assoluta anche da Belgrado per tutto il periodo dei negoziati, e solo un folle si sarebbe sognato di negarla, dopo Milosevic).
Il fatto che il Kosovo sia al 90% albanese significa, ne sono convinto, che di esso debbano decidere soprattutto loro, e che ciò che in Kosovo è albanese debba essere governato nient’altro che dagli albanesi, oggi con un supporto internazionale, domani, auspicabilmente, non più. Ma in Kosovo non tutto è albanese; ciò che non lo è, oggi è quanto mai vulnerabile e minacciato. Non lo dico per supposizione, ma perché, ahimè, sappiamo che è così; so, ad esempio, quanto terribile sia il dramma dei serbi di quel claustrofobico inferno che sono le enclaves, e lo dico con grande dispiacere.
Oggi come oggi, non esiste la capacità, né la volontà, né l’esperienza, da parte della classe politica albanese kosovara, di farsi carico di ciò in maniera civile. Il 2004 non è lontano, e sappiamo tutti che cosa è successo (e soprattutto, ripensando al 2004, si ridimensionano tutte le mie potenziali simpatie verso la “causa albanese” e i suoi argomenti). Quindi sono assolutamente convinto che un processo di decentramento sia necessario; per questo credo, personalmente, che le enclaves serbe debbano diventare delle municipalità, con i propri sindaci (l’unico modo per potersi tutelare dalle pressioni e dalle ostilità alle quali sono costantemente sottoposte). Per lo stesso motivo credo che sia giusto il principio di extraterritorialità dei monasteri. Pec e Decani, fino a pochi anni fa, sorgevano in territori in cui abitavano gli albanesi, ma anche i serbi, che ne rappresentavano la cornice etnico-culturale. Oggi sono delle isole in territorio puramente albanese, e per questo vanno protetti, in quanto ultima testimonianza del fatto che il Kosovo è comunque un mosaico, non una seconda Albania (che i serbi, comprensibilmente, non accetterebbero mai).
Il giorno in cui l’idea del mosaico sarà accettata da tutti, e l’indentità kosovara, auspicabilmente, accettata come un’identità multiculturale e multiforme (senza bisogno di assimilazioni), e tutto ciò che è “diverso”sarà oggetto di rispetto, non ci sarà più bisogno di parlare di extraterritorialità e segregazioni, e la diversità sarà vista come un’opportunità di crescita e di sviluppo (anche economico). Ma ci vuole tempo, molto tempo. E l’intelligenza di indirizzare il percorso nella direzione corretta, da parte di chi ne ha potere. Purtroppo nemmeno questo è scontato.

Un ultimo punto (giusto per precisare): il fatto che i serbi si imponessero in Jugoslavia più degli altri è in parte vero, in parte no. Vero per quanto riguarda, ad esempio, l’esercito (anche a causa, forse, di una maggiore identificazione “culturale” negli elementi simbolici dello Stato), non vero per quanto riguarda il sistema di rappresentanza politica. A fronte di un 37% sulla popolazione totale jugoslava, si può dire che i serbi fossero anzi sottorappresentati nell’ordinamento del Paese, in cui ad ogni unità federale era accordato lo stesso peso nella rappresentanza. Lo scrittore tedesco Anton Zichka trent’anni fa scriveva, non senza umorismo: “I serbi sopportano perfino Tito, che è croato. Perché, qualunque difetto possa avere, è un coraggioso”. Ma andava bene così. Questo garantiva un certo equilibrio all’interno della Jugoslavia, un equilibrio che secondo me, nel 1990-91 l’Occidente (che pure ha le sue gravissime responsabilità, mi creda) avrebbe dovuto difendere, invece di optare per un immediato smantellamento di quel Paese.
E Milosevic, anche di questo sono convinto, poteva essere “fatto fuori” molto prima che nel 2000 (non mi dimentico come ben due volte, nel 1992 e nel 1994, abbia vinto per un pugno di voti, probabilmente anzi irregolarmente; bastava qualche voto da parte albanese, per farlo cadere, ma nonostante gli appelli da parte internazionale, preferirono il boicottaggio, e quindi, detto volgarmente, “tenersi Milosevic”). Ma le ultime mie osservazioni aprono nuovi discorsi, assai più complessi e tortuosi, che non mi interessa aprire ora, anche perché i miei tanti dubbi e cambiamenti di prospettiva non mi permettono di affrontarli con facilità.

Mi do quindi uno stop (anche perché presumo che non ne possa più! Anzi, mi scuso se l’ho frastornata con questo flusso di parole). Concludo augurandole innanzitutto, a lei che è una viaggiatrice, di intraprendere nuove esperienze, formative e gratificanti quanto immagino siano state quelle passate. Posto che vai, gente che trovi, si dice, no?
Infine le auguro che la sua visuale si arricchisca di elementi, prospettive e consapevolezze che la aiutino a sviluppare una visione quanto più complessiva e allo stesso tempo chiara.
Quando si parla di Balcani, questa credo che sia quasi un’utopia. Per questo ciò che auguro a lei lo auguro anche a me stesso, che sono ancora lontano dall’averla raggiunta.

Cordiali saluti

Martin